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Angelo sale, poi
vado io, riparte lui, una fisarmonica monotona dai tasti uguali che sviluppa il
tema del canalone. Piccoli punti neri sul ghiacciaio ci chiamano a gran voce.
Lungo la pista normale cinque o sei cordate sono ferme ad ammirare il nostro
lavoro di cesello sul ripido canale.
Ci troviamo così
a sbattere il naso contro le rocce basali della bastionata che regge la vetta.
Un pilastro a piombo, pochi appigli, roccia non buona. La via che avevamo in
animo di seguire inizia molto più in basso e a sinistra. Angelo afferma che non
se la sente di scendere tra piccole slavine e i sassi lungo i settanta gradi del
canalino. Vuole attaccare lì dove si trova. Sono le 8,30.
12 Giugno 2006
Piana di Preda Rossa, una tenda, 4 del mattino e un nebbione degno della Pianura
Padana. Paolo ed io abbiamo varie cose in comune ma è per una in particolare che
siamo qui, ora: entrambi siamo rimasti stregati, ormai da anni, dal monte
Disgrazia, entrambi vi siamo giunti in vetta per 5 o 6 vie diverse, dai vari
punti cardinali, dalla Cordamolla alla parete Nord, dalla cresta Ovest al
canalone Schenatti e alla via Baroni; dall'infinita cresta di Corna Rossa a
quella ESE altrettanto interminabile che porta fino al passo Cassandra.
Ci manca la parete Sud e la sua “direttissima”.
Giunti alla base del canalone ci leghiamo, più che altro per alleggerire gli
zaini del materiale: corda intera da 60 metri che pesa uno sproposito, set quasi
completo di friend nonché una ricca dotazione di chiodi, compresi quelli che
avevamo scartato e che sarebbero dovuti restare in macchina – mai errore fu più
propizio in quanto li useremo eccome.
Risaliamo il canalone molto agevolmente, con ottime condizioni, arrivando alla
base del pilastro che delimita a destra il canalino della via originale del
canalone Sud-ovest, dove decidiamo di attaccare. Solo il giorno dopo realizzerò
che ci trovavamo esattamente dove la cordata del ’55 aveva programmato di
attaccare originariamente, trovandosi però poi un po' più in alto.
Sono le 8.
Una filaccia
di nebbia si aggira tra le rocce ed i pilastri. Quando mi volto verso valle non
scorgo più nulla. Solo un gran banco di nebbie. In poco più di trenta minuti il
cielo si è incupito. Sopra le nostre teste anche la parete scompare nell'ovatta.
Angelo riprende la testa della cordata. In
roccia si ritrova nel suo elemento preferito e ci si tuffa con la foga del
puledro di razza all'alzarsi dei nastri di partenza. Va su di stile, senza
sforzo apparente, ondeggiando lentamente sui passaggi più ostici. Di tanto in
tanto sento battere il suo martello nasuto contro i banchi di vetrato, specchi
inutili su una roccia già tanto avara di appigli buoni.
In quei momenti, le corde non scorrono più
nelle mie mani ed il dondolio che le agita è sufficientemente esplicativo per
me. Attraverso i dieci millimetri di canapa passano le comunicazioni, giungono
messaggi ora concisi, ora meno. Le parole, scarse, quasi non servono.
Sento il primo chiodo che canta. In un momento
tutto arcigno l'unica nota lieta è il canto di quel chiodo. Ancora un tratto
abbastanza semplice dopo il difficile passaggio. Poi, fermi.
A questo punto, regia perfetta, volteggiano i
primi fiocchi di neve. Evidentemente non si tratta solo di nebbia. Per il
momento siamo preoccupati solo dal passaggio che abbiamo di fronte.
Facile, all'apparenza: un buon diedro, non del
tutto verticale. In condizioni normali l'avremmo passato col sorriso sulle
labbra. Oggi non riusciamo a sorridere. E neppure a passare. La colpa è del
vetrato: nero, duro, spesso. Inutile pestare col martello: volano scintille,
scaglie, crolla l'intera montagna, però il piede poi non tiene, gli appigli
sembrano anguille vive. Angelo, montone dalla testa dura, si incaponisce e quasi
ha la bava alla bocca per l'ira.
Considero
l'opportunità di aggirare l'ostacolo, ma non c'è altro da fare.
«Siamo fermi».
«Bene, sediamoci, fumiamo una sigaretta e
beviamo qualcosa».
«Non far lo scemo. Bisogna trovare un'altra
soluzione».
«Già provato. O ci si rompe il grugno su di lì
o torniamo a casa».
«Cribbio, e pensare che sarebbe un passaggio
facile!»
«Sarebbe,
ma non lo è, con tutto quel ghiaccio».
Va a finire con Angelo che si infila deciso i ramponi, pianta due chiodi, si
esibisce in una azione di forza, supera il passaggio, si toglie i ramponi e
prosegue. Anche quel maledetto punto è superato.
Possiamo ora dare un' occhiata generale alla
situazione. La nebbia è ancora fitta e la nevicata aumenta di intensità. Sui
terrazzini e le placche la neve diviene più alta di minuto in minuto e si
incolla, portata dal vento.
Calcoliamo che manchino circa cento metri alla
vetta. Angelo sostiene che usciremo a destra, sulla cresta orientale, con
argomentazione serrata. lo ribadisco la mia tesi che sbucheremo diritti diritti
in vetta.
Torno in testa io, per tre tiri di corda.
Angelo mi espone il dubbio che la nostra sia una via nuova. Effettivamente non
esiste il minimo segno del passaggio dell'uomo. Da questo istante in poi, Angelo
mi ripeterà fino alla nausea questa sua convinzione. Risulterà che aveva ragione.
lo comincio ad essere stufo. Stufo soprattutto
di togliere chiodi che assolutamente non desiderano abbandonare la roccia o che
fanno il possibile per sfuggirti di mano, e a volte ci riescono. Sono stufo di
prender sassi in testa, sono tutto bernoccoluto ed in alcuni punti sanguinante.
Il freddo e la neve fanno da emostatico.
Pian pianino, dopo un tiro di corda di
“quarto” secco che inoltre ci fa sudare per la presenza del solito vetrato, lo
spigolo attenua la sua verticalità, si appiana contro la parete, questa si
inclina, si apre e, di tra le nebbie non si scorge più il nero cupo delle rocce
sopra la testa. Si indovina il cielo. Siamo agli ultimi trenta metri. Un tiro di
corda.
«Vai Angelo, ormai ci siamo».
«Lo credo bene…».
C'è un passaggio mal sagomato, formato da un
doppio strapiombo, limitato a sinistra da una placca completamente levigata e a
cinquanta gradi. Angelo mette un chiodo, poi un altro. Si aggrappa, brancica con
le mani, è quasi fuori, ma il tettuccio al di sopra del primo strapiombo lo
rovescia all'indietro.
Non è piacevole fare scatti sulle rocce né la
mia testa è un comodo supporto per i suoi piedi: ma lo faccio ed evito così che
voli. La faccenda si ripete identica poco dopo.
Siamo anche alquanto stanchi. Al terzo
assalto, finalmente, riesce sfruttando un sapiente gioco di equilibrio.
Angelo è in vetta e me lo comunica
gioiosamente.
Avevo ragione io.
Il mio compagno, appoggiato al traliccio di
ferro che orna la vetta, recupera le corde e parla di sosta e recita il menù del
pranzo. Dice che anche in piena tormenta non vuole rinunciare al thé che ci
siamo portati appresso per quattordici ore e a tutte le altre cose. Dice che
ormai la via normale ci è tanto nota da poterla scendere ad occhi bendati.
Sono le 16,30.
Piantiamo i primi due chiodi della giornata, leviamo i ramponi e attacchiamo
dunque le rocce basali, convinti (ma non troppo) che si tratti dello stesso
punto dove attaccò la cordata del ’55. Faccio due passaggi e mi rendo subito
conto che la roccia è migliore e anche più compatta di quello che mi aspettassi,
il che comporta una cosa ancora più importante: che la scalata è più difficile
di quello che mi aspettassi.
Basta un breve tiro di corda per renderci subito conto che non ci troviamo sulla
via originale. L’arrampicata è difficile e piuttosto tecnica, non è certo di IV
ma direi di V sostenuto. Il secondo tiro poi ci impegna ancora di più, anzi
decisamente troppo. Una placca seguita da una fessura verticale mi costringe al
massimo dello sforzo. Ci trovassimo in falesia a divertirci andrebbe anche bene,
ma qui siamo sulla Sud del Disgrazia a circa 3400 metri, con zaino, scarponi al
posto delle scarpette, appigli sempre da verificare, friend e chiodi da piantare
al posto di rassicuranti spit da rinviare. Dopo un passo che valutiamo
probabilmente di VI dove tiro un chiodo piantato non so come ma che tiene
miracolosamente, ci fermiamo in sosta e facciamo il punto della situazione: di
qui non è mai passato nessuno e così non possiamo continuare, faremmo notte.
Riusciamo quindi a compiere un lungo traverso a dx e a prendere quella che ormai
appare come la via originale, su roccia meno bella, ma anche meno difficile. Con
due tiri da 50 ci alziamo parecchio, le difficoltà sono minori ma neanche più di
tanto. Altri due tiri e finalmente esco pochi metri a sinistra della vetta dove
faccio sosta con un cordino intorno al segnale trigonometrico. Paolo mi
raggiunge in sosta e possiamo finalmente lasciarci andare a grandi sorrisi e
reciproci complimenti.
Sono le 14.
E’ allora che penso, con sconfinata ammirazione, alla cordata Bregani Vanelli
del 1955 e a quello che hanno passato. Invito caldamente chi legge a scaricare e
a leggere tutto il racconto di quella salita (E
nel cielo si disegnò la folgore), di
cui ho estratto qui solo degli stralci, poiché la loro odissea ebbe veramente
inizio solo una volta conquistata la vetta.
Ringrazio
Alberto Bregani,
il figlio di Giancarlo Bregani, per la sua amicizia e per aver condiviso con me
in tante serate il materiale letterario, fotografico e anche cinematografico
lasciato dal padre e recuperato 50 anni dopo in vecchi scatoloni dalla soffitta.
E’ stato grandioso e di grande stimolo rileggere e rivedere come dei ragazzi
come noi, negli anni ’50, fossero mossi dalla stessa sconfinata passione per la
montagna, in un clima di spensieratezza e gioia tipico del periodo post-bellico.
Uno stimolo all’esplorazione di questo alpinismo del passato che deve avere
ispirato non solo il sottoscritto ma anche un grande come Ivo Ferrari. Il quale
il giorno prima, domenica, ha compiuto la stessa ascensione in compagnia
soltanto dei suoi ramponi e piccozze.
Padrone solitario, per un giorno, della "direttissima" alla parete Sud del
Disgrazia.
Lorenz |
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