Monte Disgrazia
la "Direttissima" 50 anni dopo
12 giugno 2006 - Paolo e Lorenz

 
 

7 agosto 1955
Il ghiacciaio sussurra sommesso di acque che il gelo tiene ancora legate. In alto, di fronte a noi, si erge il Disgrazia. Non mi fermo, incantato come altre volte, a guardarlo, lo conosco ormai troppo bene, ne ricordo i sassi mobili delle creste e gli appigli di almeno sei vie diverse. L'angolo che ancora non conosco, al sommo del grande canalone nevoso dove spesso rombano le grosse valanghe, l'erta parete sud che con gli occhi dell'anima vedo lassù in alto, mi impedisce di guardarla. Forse ne ho timore.
Forse

Ci dirigiamo veloci verso l'imboccatura del canalone, alla nostra destra. Ci leghiamo, compiendo il solito rituale. Corda da sessanta metri, doppia, legamento a spalla. Ramponi ai piedi, piccozza nella destra. Ci muoviamo: la passeggiata è finita ed ora si lavora.

 
  Angelo sale, poi vado io, riparte lui, una fisarmonica monotona dai tasti uguali che sviluppa il tema del canalone. Piccoli punti neri sul ghiacciaio ci chiamano a gran voce. Lungo la pista normale cinque o sei cordate sono ferme ad ammirare il nostro lavoro di cesello sul ripido canale.

Ci troviamo così a sbattere il naso contro le rocce basali della bastionata che regge la vetta. Un pilastro a piombo, pochi appigli, roccia non buona. La via che avevamo in animo di seguire inizia molto più in basso e a sinistra. Angelo afferma che non se la sente di scendere tra piccole slavine e i sassi lungo i settanta gradi del canalino. Vuole attaccare lì dove si trova. Sono le 8,30.

12 Giugno 2006
Piana di Preda Rossa, una tenda, 4 del mattino e un nebbione degno della Pianura Padana. Paolo ed io abbiamo varie cose in comune ma è per una in particolare che siamo qui, ora: entrambi siamo rimasti stregati, ormai da anni, dal monte Disgrazia, entrambi vi siamo giunti in vetta per 5 o 6 vie diverse, dai vari punti cardinali, dalla Cordamolla alla parete Nord, dalla cresta Ovest al canalone Schenatti e alla via Baroni; dall'infinita cresta di Corna Rossa a quella ESE altrettanto interminabile che porta fino al passo Cassandra.
Ci manca la parete Sud e la sua “direttissima”.

Giunti alla base del canalone ci leghiamo, più che altro per alleggerire gli zaini del materiale: corda intera da 60 metri che pesa uno sproposito, set quasi completo di friend nonché una ricca dotazione di chiodi, compresi quelli che avevamo scartato e che sarebbero dovuti restare in macchina – mai errore fu più propizio in quanto li useremo eccome.
Risaliamo il canalone molto agevolmente, con ottime condizioni, arrivando alla base del pilastro che delimita a destra il canalino della via originale del canalone Sud-ovest, dove decidiamo di attaccare. Solo il giorno dopo realizzerò che ci trovavamo esattamente dove la cordata del ’55 aveva programmato di attaccare originariamente, trovandosi però poi un po' più in alto.
Sono le 8.

Una filaccia di nebbia si aggira tra le rocce ed i pilastri. Quando mi volto verso valle non scorgo più nulla. Solo un gran banco di nebbie. In poco più di trenta minuti il cielo si è incupito. Sopra le nostre teste anche la parete scompare nell'ovatta.

Angelo riprende la testa della cordata. In roccia si ritrova nel suo elemento preferito e ci si tuffa con la foga del puledro di razza all'alzarsi dei nastri di partenza. Va su di stile, senza sforzo apparente, ondeggiando lentamente sui passaggi più ostici. Di tanto in tanto sento battere il suo martello nasuto contro i banchi di vetrato, specchi inutili su una roccia già tanto avara di appigli buoni.

In quei momenti, le corde non scorrono più nelle mie mani ed il dondolio che le agita è sufficientemente esplicativo per me. Attraverso i dieci millimetri di canapa passano le comunicazioni, giungono messaggi ora concisi, ora meno. Le parole, scarse, quasi non servono.

Sento il primo chiodo che canta. In un momento tutto arcigno l'unica nota lieta è il canto di quel chiodo. Ancora un tratto abbastanza semplice dopo il difficile passaggio. Poi, fermi.
A questo punto, regia perfetta, volteggiano i primi fiocchi di neve. Evidentemente non si tratta solo di nebbia. Per il momento siamo preoccupati solo dal passaggio che abbiamo di fronte.

Facile, all'apparenza: un buon diedro, non del tutto verticale. In condizioni normali l'avremmo passato col sorriso sulle labbra. Oggi non riusciamo a sorridere. E neppure a passare. La colpa è del vetrato: nero, duro, spesso. Inutile pestare col martello: volano scintille, scaglie, crolla l'intera montagna, però il piede poi non tiene, gli appigli sembrano anguille vive. Angelo, montone dalla testa dura, si incaponisce e quasi ha la bava alla bocca per l'ira.
Considero l'opportunità di aggirare l'ostacolo, ma non c'è altro da fare.

«Siamo fermi».

«Bene, sediamoci, fumiamo una sigaretta e beviamo qualcosa».
«Non far lo scemo. Bisogna trovare un'altra soluzione».
«Già provato. O ci si rompe il grugno su di lì o torniamo a casa».
«Cribbio, e pensare che sarebbe un passaggio facile!»
«Sarebbe, ma non lo è, con tutto quel ghiaccio».

Va a finire con Angelo che si infila deciso i ramponi, pianta due chiodi, si esibisce in una azione di forza, supera il passaggio, si toglie i ramponi e prosegue. Anche quel maledetto punto è superato.


Possiamo ora dare un' occhiata generale alla situazione. La nebbia è ancora fitta e la nevicata aumenta di intensità. Sui terrazzini e le placche la neve diviene più alta di minuto in minuto e si incolla, portata dal vento.
Calcoliamo che manchino circa cento metri alla vetta. Angelo sostiene che usciremo a destra, sulla cresta orientale, con argomentazione serrata. lo ribadisco la mia tesi che sbucheremo diritti diritti in vetta.

Torno in testa io, per tre tiri di corda. Angelo mi espone il dubbio che la nostra sia una via nuova. Effettivamente non esiste il minimo segno del passaggio dell'uomo. Da questo istante in poi, Angelo mi ripeterà fino alla nausea questa sua convinzione. Risulterà che aveva ragione.

lo comincio ad essere stufo. Stufo soprattutto di togliere chiodi che assolutamente non desiderano abbandonare la roccia o che fanno il possibile per sfuggirti di mano, e a volte ci riescono. Sono stufo di prender sassi in testa, sono tutto bernoccoluto ed in alcuni punti sanguinante. Il freddo e la neve fanno da emostatico.
Pian pianino, dopo un tiro di corda di “quarto” secco che inoltre ci fa sudare per la presenza del solito vetrato, lo spigolo attenua la sua verticalità, si appiana contro la parete, questa si inclina, si apre e, di tra le nebbie non si scorge più il nero cupo delle rocce sopra la testa. Si indovina il cielo. Siamo agli ultimi trenta metri. Un tiro di corda.
«Vai Angelo, ormai ci siamo».
«Lo credo bene…».
C'è un passaggio mal sagomato, formato da un doppio strapiombo, limitato a sinistra da una placca completamente levigata e a cinquanta gradi. Angelo mette un chiodo, poi un altro. Si aggrappa, brancica con le mani, è quasi fuori, ma il tettuccio al di sopra del primo strapiombo lo rovescia all'indietro.
Non è piacevole fare scatti sulle rocce né la mia testa è un comodo supporto per i suoi piedi: ma lo faccio ed evito così che voli. La faccenda si ripete identica poco dopo.
Siamo anche alquanto stanchi. Al terzo assalto, finalmente, riesce sfruttando un sapiente gioco di equilibrio.
Angelo è in vetta e me lo comunica gioiosamente.
Avevo ragione io.
Il mio compagno, appoggiato al traliccio di ferro che orna la vetta, recupera le corde e parla di sosta e recita il menù del pranzo. Dice che anche in piena tormenta non vuole rinunciare al thé che ci siamo portati appresso per quattordici ore e a tutte le altre cose. Dice che ormai la via normale ci è tanto nota da poterla scendere ad occhi bendati.
Sono le 16,30.

Piantiamo i primi due chiodi della giornata, leviamo i ramponi e attacchiamo dunque le rocce basali, convinti (ma non troppo) che si tratti dello stesso punto dove attaccò la cordata del ’55. Faccio due passaggi e mi rendo subito conto che la roccia è migliore e anche più compatta di quello che mi aspettassi, il che comporta una cosa ancora più importante: che la scalata è più difficile di quello che mi aspettassi.
Basta un breve tiro di corda per renderci subito conto che non ci troviamo sulla via originale. L’arrampicata è difficile e piuttosto tecnica, non è certo di IV ma direi di V sostenuto. Il secondo tiro poi ci impegna ancora di più, anzi decisamente troppo. Una placca seguita da una fessura verticale mi costringe al massimo dello sforzo. Ci trovassimo in falesia a divertirci andrebbe anche bene, ma qui siamo sulla Sud del Disgrazia a circa 3400 metri, con zaino, scarponi al posto delle scarpette, appigli sempre da verificare, friend e chiodi da piantare al posto di rassicuranti spit da rinviare. Dopo un passo che valutiamo probabilmente di VI dove tiro un chiodo piantato non so come ma che tiene miracolosamente, ci fermiamo in sosta e facciamo il punto della situazione: di qui non è mai passato nessuno e così non possiamo continuare, faremmo notte. Riusciamo quindi a compiere un lungo traverso a dx e a prendere quella che ormai appare come la via originale, su roccia meno bella, ma anche meno difficile. Con due tiri da 50 ci alziamo parecchio, le difficoltà sono minori ma neanche più di tanto. Altri due tiri e finalmente esco pochi metri a sinistra della vetta dove faccio sosta con un cordino intorno al segnale trigonometrico.  Paolo mi raggiunge in sosta e possiamo finalmente lasciarci andare a grandi sorrisi e reciproci complimenti.
Sono le 14.

E’ allora che penso, con sconfinata ammirazione, alla cordata Bregani Vanelli del 1955 e a quello che hanno passato. Invito caldamente chi legge a scaricare e a leggere tutto il racconto di quella salita (
E nel cielo si disegnò la folgore), di cui ho estratto qui solo degli stralci, poiché la loro odissea ebbe veramente inizio solo una volta conquistata la vetta.

Ringrazio
Alberto Bregani, il figlio di Giancarlo Bregani, per la sua amicizia e per aver condiviso con me in tante serate il materiale letterario, fotografico e anche cinematografico lasciato dal padre e recuperato 50 anni dopo in vecchi scatoloni dalla soffitta.
E’ stato grandioso e di grande stimolo rileggere e rivedere come dei ragazzi come noi, negli anni ’50, fossero mossi dalla stessa sconfinata passione per la montagna, in un clima di spensieratezza e gioia tipico del periodo post-bellico.

Uno stimolo all’esplorazione di questo alpinismo del passato che deve avere ispirato non solo il sottoscritto ma anche un grande come Ivo Ferrari. Il quale il giorno prima, domenica, ha compiuto la stessa ascensione in compagnia soltanto dei suoi ramponi e piccozze.
Padrone solitario, per un giorno, della "direttissima" alla parete Sud del Disgrazia.

Lorenz